Recensioni: Danilo Zaia, “Dalla paura alla vanità. Storia del carnevale di Ivrea”

Pubblicato anche sulla rivista L’Escalina, anno VI numero 1, giugno 2024

L’acuta prefazione di Gabriella Gianotti, presidente dell’Associazione Museo Storico Carnevale di Ivrea, e Franco Quaccia, Dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Torino, aprendo questo notevole lavoro, sottolinea che: «Il carnevale è una festa che ha nella complessità, e nelle molteplicità, la sua vera e intima natura: una festa per la quale ogni interpretazione rischia di essere univoca, parziale e mai veramente persuasiva. Il Carnevale è ambivalente: nega ed afferma nello stesso tempo». Su questo assioma i prefatori spiegano che l’Autore – unico fino ad oggi a cimentarsi in una Storia del Carnevale di Ivrea – si è mosso con una ricerca rigorosa nel suo impianto metodologico, aprendo con l’esposizione dei molti elementi storico-folclorici che sono stati pazientemente raccolti per comprendere la nascita di questa festa. «Lo studioso compie così un singolare viaggio sia nei riti di fondazione di una comunità sia nel formarsi di una specifica cultura locale».

Roberto Leydi scriveva nel 1982 che: «Il Carnevale di Ivrea è diverso da tutti gli altri e pur uguale a tutti gli altri, dove è opportuno ricordare che sempre ed ovunque sul Carnevale si è esercitata, con maggior o minor successo, l’azione correttrice e soprattutto interdittrice delle egemonie sociali, religiose e politiche». Ma se questo è il punto di partenza di Leydi, la ricerca degli ultimi quarant’anni ha portato a considerare – come spiega l’Autore – che: «Oggi sappiamo che il tempo della festa, pur essendo uno dei luoghi dove più si sono soffermate le posizioni, i ruoli e le idee delle classi dominanti, è stato anche il momento in cui le classi subalterne hanno potuto esprimere, come vedremo, la loro visione del mondo». Festa di popolo e festa civica convivono nell’unico evento, quel rito che comunque celebra il mito della fondazione di una comunità. Il rimando al titolo del lavoro è la sintesi caratterizzante di questo crogiolo polisemantico: paura e vanità: «la paura dell’uomo che si trova circondato da un ambiente ostile e sente la necessità di renderlo più abituale attraverso un rito e la vanità di coloro che nella festa cercano il consenso al loro operare». Una tripartizione che comunque resta tale in quanto non è possibile amalgamare fonti storiche, con miti e riti. Una narrazione quella del volume che segue questo indirizzo dipanandosi tra quattordici capitoli che affrontano le vicende storiche, la cerimonia della «presa in custodia», analisi del mito e del rito, riti del mondo contadino, San Nicola e Calendimaggio, Vel aliis diebus feriatis, quindi la Controriforma per arrivare ai giorni nostri.

Le conclusioni prendono spunto da due riflessioni temporali: Umberto Eco scriveva nel 2001 che il gioco: «come momento di esercizio disinteressato, deve essere disinteressato, deve essere gratuito, e per essere tale ha bisogno di essere parentetico. È un momento di sosta. Durante il Carnevale si gioca senza interruzione, ma poiché sia bello e non faticoso, deve durare poco». Un punto di vista che l’Autore condivide intuendo oggi la fine del tempo deputato nella «carnevalizzazione del quotidiano» (gay pride, cosplayers, rave parties, black block) che, somma alla mancanza di comprensione di gran parte delle azioni riturali di cui si è smarrito nella storia il senso primigenio. Un punto di vista acuto, quasi coevo all’affermazione di Eco, resta quella del vescovo Arrigo Miglio, rilasciata in un’intervista ad un gruppo di studenti dell’Università di Torino impegnati in un laboratorio etnoantropologico: «È un rito importantissimo il Carnevale. Perché è nato con la liturgia, per preparare l’inizio della Quaresima. Oggi la Quaresima è scomparsa, è rimasto il Carnevale: ma non si può avere tutto dalla vita, meglio che niente». Una festa, quella del Carnevale che la si può solo amare, più che comprendere scientificamente appieno.

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