Pubblicato anche sulla rivista L’Escalina, anno VI numero 1, giugno 2024
Un volume imponente per le sue 672 pagine, ma prezioso per il tratteggio biografico di un poeta reggiano definito: «ingegnoso e amabile paradosso» dai suoi contemporanei poiché sebbene di vocazione liberale curvata sul moderatismo neoguelfo, venne per oltre sette anni a sostenere l’incarico di poeta cesareo alla corte estense di Modena, nel cuore della Restaurazione di quell’antico stato imperiale.
Nella prefazione, Giuseppe Langella, già ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, sottolinea la peculiarità della breve vita di Antonio Peretti, dove «quell’esistenza terrena s’incunea perfettamente entro i limiti cronologici di quell’ordine politico che fu dato alla Penisola italiana in seguito alla restaurazione post-napoleonica. Egli, infatti, nacque il 13 giugno 1815, quattro giorni dopo la chiusura del Congresso di Vienna e cinque giorni prima della battaglia di Waterloo, e morì il 23 novembre 1858 al termine cioè dell’anno che precedette la Seconda guerra d’Indipendenza, primo passo verso il definitivo smantellamento dei plurisecolari Stati italiani e la conseguente istituzione del nuovo Regno d’Italia». Una forte simpatia di Francesco IV per quel giovane amante delle lettere e della poesia, lo sostenne nel gravoso e paradossale incarico cortigiano. «Sorte curiosa» – continua Langella – «per un uomo che, pur rifuggendo per sua natura ogni forma di estremismo, non fu certo un alfiere della causa legittimistica». Eppure, proprio quell’incarico gli permise di essere oggi considerato – prosegue Mattia Spaggiari nell’introduzione – «Lungi dall’essere un letterato di rilievo meramente locale o – peggio ancora – uno scrittore isolato, il Peretti conobbe ai suoi tempi una certa notorietà anche al di là dei confini del Ducato e poté vantare amicizie e collaborazioni con alcuni dei più illustri esponenti della cultura italiana dell’epoca. I suoi versi furono letti e apprezzati dal Dall’Ongaro, dal Tommaseo, dal Piave, persino dal Giacosa, di cui il Peretti fu, in un certo senso, il primo maestro. Dopo la sua morte gli dedicarono discorsi e biografie gli amici Giovanni Sabbatini, Jacopo Bernardi, Ferdinando Paolo Ruffini, Paolo Ferrari, Ferdinando Bosio, oltre al concittadino Silvio Campani e al letterato veronese Giuseppe Biadego. Eppure, nonostante l’iniziale momento di relativa notorietà, la fama del Peretti era destinata a declinare rapidamente, al punto che oggi il poeta castelnovese non è più ricordato se non da un ristretto manipolo di cultori di storia locale».
Nato il 13 giugno 1856 a Castelnuovo ne’ Monti (Reggio nell’Emilia), figlio di Giuseppe e Giuditta Rabotti, dopo l’insegnamento primario entrò nel seminario di Marola, diretto mirabilmente da don Giovanni Ceccardi, istituzione spesso tra le lodi del duca che ebbe modo di incontrare il dodicenne Peretti in una visita al seminario e in occasione di una visita e di una recita di poesia d’occasione. Passato al collegio dei Gesuiti a Reggio, qui vi incontrò i poeti Agostino Cagnoli e Giuseppe Tonelli, il primo definito il «Lamartine d’Italia» ebbe notevole influsso sulla poesia di Peretti e su tutta la penisola per un breve periodo. Ma il padre, addottorato nella disciplina legale come già il nonno a Bologna, costrinse il giovane a lasciare gli studi di Filosofia per entrare nel Convitto Legale di Reggio nel 1834. Qui vi incontrò il poeta Giuseppe Tonelli, insegnante di Eloquenza forense e Storia, fratello del direttore del convitto, Giampietro. Sarà Crescimanno Tomasi nel suo volume Alcuni poeti alla Corte di Francesco IV di Modena a indicare la triade Peretti, Cagnoli e Tonelli. Quest’ultimo, classicista fece innamorare il Peretti alla poesia pariniana e all’utilizzo dell’endecasillabo diventandone la guida. Così Antonio Peretti avrebbe ricordato il ritrovamento di questo maestro nel 1839, come illustra nitidamente l’autore Mattia Spaggiari:
Mattia Spaggiari individua per questi versi la patente pariniana nei mesti studi della dea Pallade e una tessera foscoliana in Infiammavi del bello italo canto e in altri esempi e ancora versi che si riconducono alla cronaca a lui nota, coeva del Peretti e delle relazioni con fatti e personaggi del suo tempo. La prima prova di Antonio Peretti fu del 1835 con la composizione In morte di Vincenzo Bellini, ricordato da Giosuè Carducci nella Louisa Grace Bartolini, in Bozzetti critici e discorsi letterari, del 1876. Spaggiari si sofferma poi sul momento delle sei anacreontiche, ancora di gusto arcadico, sul tema della «Celeste Verità» e dedicate alla duchessa Maria Beatrice e alla loro traduzione in latino dovuta a don Lazzaro Scappini, già maestro del Peretti a Marola. Si sofferma sulle note più private della sua relazione con la poetessa milanese Adele Curti durata un solo giorno ma continuata in via epistolare e, una volta raffreddata da lei per la giovinezza del Peretti, trasformata in collaborazione poetica sulla poesia sacra e sul componimento A Maria Vergine. Il filone, grato alle monarchie della Restaurazione, produsse, sulla scia di Manzoni, Grossi e Pellico, svariati altri autori anche nel ducato con esiti incerti, ad eccezione di alcuni tratti, come del resto la produzione sacra del Peretti.
Spaggiari esplora poi il filone della poesia d’occasione, composte per funerali, prime messe, monacazioni e soprattutto nozze. Lo sperimentalismo del Peretti viene qui tratteggiato dall’uso del decasillabo anapestico, verso prediletto piuttosto per soggetti militari, patriottici o comunque più cruenti di un matrimonio. L’autore poi ripropone i versi di questi componimenti cassati dalla censura. Terminati gli studi in legge nel 1839, il Peretti viene studiato nella produzione in fogli, strenne, biografie e anche nei suoi progetti incompiuti, tanto per marcare il suo scarsissimo interesse per la professione forense ma nel contempo anche l’intenzione di trovarsi lavoro per aiutare il padre a mantenere la famiglia nel più aperto Granducato di Toscana. Nel frattempo, si dedicò ai testi per musica in collaborazione con Achille Pieri appena tornato da un lungo soggiorno francese e che produsse un coro funebre dal titolo La tomba di Paganini, Il pirata (sulla moda byroniana del Corsaro) e la romanza per voce di mezzosoprano Il pianto. Anche il teatro sperimentò Peretti con l’abbozzo di due tragedie, Isabella Sforza e Marin Faliero di cui rimangono flebili tracce. Con l’amico Angelo Catelani esplorò soprattutto il melodramma e compose Beatrice di Tolosa, opera scelta da Francesco IV. Ma il debutto, previsto per la stagione teatrale del 1840 non avvenne per la morte a 47 anni della duchessa Maria Beatrice Vittoria (figlia maggiore di Vittorio Emanuele I e di Maria Teresa d’Austria Este) il 15 settembre di quell’anno. Se i poeti del ducato corsero per celebrane in versi la memoria della duchessa, anche ella dilettante poeta, per il Peretti il mancato debutto fu presto compensato da un nuovo avvenimento: commemorata la morte e poi le esequie della duchessa, i suoi versi colpirono la famiglia ducale e poco più di un mese dopo, Peretti fu nominato Poeta di Corte con stipendio di 6 zecchini (69,06 lire italiane) al mese. Francesco IV aveva così ripristinato la carica interrotta con Torquato Tasso e occupata da Ludovico Ariosto e Fulvio Testi.
Spaggiari si sofferma sul paradosso di questa nomina di un sovrano reazionario a favore di un poeta cattolico ma liberale, analizzando le varie soluzioni senza dimenticare la stroncatura della Curti: «non posso io però far di meno, congratulandomi che abbiate raggiunto una meta desiderata, di deplorare la spontanea schiavitù in cui avete costretto il nobile vostro ingegno». Spaggiari offre al lettore tutta la serie di commenti critici positivi e negativi coevi alla nomina di Peretti, calati nella situazione politica che vedeva scontrarsi fautori e oppositori di quel piccolo ducato assoluto che dal 1821 aveva richiamato i Gesuiti alla pubblica istruzione, aumentato la censura e soprattutto, per gli oppositori, la colpa di Francesco IV di aver fatto condannare a morte nel 1831 Giuseppe Andreoli, Ciro Menotti, Vincenzo Borelli e Giuseppe Ricci. Le prime prove del poeta di corte si concretizzarono rapidamente nel carme in versi sciolti Al Conte Paolo Abbati Marescotti del 1840, guardia nobile d’onore e tragediografo, ove Spaggiari sottolinea l’intento riformatore del Peretti che scrive in versi di estetica teatrale, perché soprattutto il teatro è un fondamentale strumento educativo, condannando moralmente quelle istanze già adombrate nelle tragedie dell’Alfieri per l’uso del raccapricciante, già romantico, che aveva indotto gli autori di teatro a portare in scena i delitti efferati:
Seppur partecipe del fenomeno romantico di rivalutazione dell’età medievale, Peretti ravvisa i limiti del Medievalismo e pone fuori da questa critica l’opera del Marescotti con la chiosa incentrata alla gratitudine personale nel sincero omaggio cortigiano. L’anno successivo si impegnerà nella poesia funebre d’occasione come In morte del N. U. avvocato e giudice Vincenzo Poppi e Spaggiari recupera un precedente perottiano del 1838 assolutamente parodistico del genere delle consolationes, opere divertente e inedita dal titolo significativo: Del Gatto Bianco del Signor Anania Rivolti di Correggio:
Mentre la produzione poetica segue le tappe della vita di corte, la partecipazione del Peretti sembra sinceramente patriottica e con attenzione al Piemonte di Casa Savoia poiché Maria Beatrice di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele I aveva sposato il duca di Modena, la sorella Maria Teresa il duca di Lucca e poi di Parma, Maria Cristina, Ferdinando II delle Due Sicilie e Maria Anna l’Imperatore Ferdinando d’Asburgo-Lorena. L’unico profilo critico che ne esce è costituito da una evidenza sull’Italia che ha deposto le velleità militari, forti invece al tempo degli antichi romani per dedicarsi al culto della propria bellezza.
Altro aspetto che sottolinea Spaggiari è quello della passione del Peretti per il giornalismo, una via privilegiata per parlare direttamente col popolo. Il giornalismo come «voce del popolo», espressione subitanea di vita nazionale che tornava a fiorire. Nel 1841, complice anche la sua posizione a corte, si gettò nell’avventura di realizzare un giornale tutto suo. Era nato «Il Silfo. Giornale letterario artistico teatrale» trimensile che visse per 36 numeri che dichiarava fin dall’esordio di non voler affrontare i temi politici. Su invito del Peretti vi avrebbe probabilmente collaborato con due articoli Niccolò Tommaseo firmandosi “KXY” anche perché nel 1835 aveva attaccato la «Voce della Verità» giornale protetto e finanziato dal duca per difendere Viesseux e contestare la chiusura della sua «Antologia».
Il teatro per Peretti restava sempre nei suoi interessi e nel settembre 1841 si inserì nella polemica nata già dal 1832 intorno agli ottimi «Annali del Teatro della Città di Reggio» del conte Carlo Ritorni, quando la testata cadde nella censura ducale di Luigi Cagnoli, ex giacobino estremista pentito e implacabile repressore della Restaurazione, passato con disinvoltura dalla Guardia imperiale di Napoleone alla Guardia d’Onore del duca Francesco IV. Il Cagnoli ne ottenne la chiusura nel 1840 e Peretti presentò invano al duca istanza di riapertura dell’importante testata. Compose la tragedia lirica Carattaco, storia di un capo britanno all’epoca della conquista romana, rievocato da Tacito nel XII libro degli Annales. Dopo molte traversie, la consulenza musicale di Gioachino Rossini, e la difficoltosa conclusione del terzo atto, il Carattaco di Peretti andò in scena il 25 novembre 1841 con un successo clamoroso riconosciuto dal pubblico liberale che destò non poche grane a Peretti e al compositore Angelo Catelani.
Per l’incarico svolto a corte, Peretti fu cooptato in diverse accademie: nella Reale delle Scienze, Lettere ed Arti di Modena, dei Filomati di Lucca, nella Lucchese di Scienze, Lettere ed Arti, nell’Imperiale Reale Società Aretina di Scienze, Lettere ed Arti e molte altre ancora. In occasione della visita del re Ludovico I di Baviera a Modena compose un inno celebrativo musicato da Gandini ed eseguito prima della rappresentazione dell’Elisir d’amore di Donizetti.
Spaggiari esamina anche il settore degli scritti artistici perettiani, anche qui in relazione alla sua posizione poiché nel 1843 venne nominato Segretario dell’Accademia Atestina di Belle Arti, diretta dal celebre pittore e scultore modenese Adeodato Malatesta. Tra i due intercorse una solida amicizia collaborativa che diede vita al riordinamento degli studi e all’istituzione di nuovi premi, cercando di rendere l’istituzione fondata nel 1786 dal duca Ercole III, più svincolata dal governo. L’Autore si sofferma poi sulle odi a Sermattei e a Gavioli. La prima era la risposta alla polemica nata con l’affermazione del conte Moritz von Dietrichstein, maggiordomo dell’imperatrice Maria Anna sulla sua presunta affermazione che recitava «gli italiani non sanno che cantare». Poi le strenne miscellanee per nozze, che restituiscono quei climi anche familiari con i riferimenti a Leopardi, Berchet, Guilhem de la Tor e ai poeti Wordsworth e Blake. L’opera antologica dei propri versi vide la luce nel settembre 1843 e fu dedicata al duca. Un secondo volume non venne mai stampato e non si conosce l’indice di questa seconda raccolta. L’Autore, quindi, dedica un capitolo ad una misteriosa dama modenese a cui Peretti aveva rivolto un Commiato, per poi passare alla redazione di tre almanacchi che portavano il titolo di «Buon Umore» pubblicati tra il 1843 e il 1845, idea nata per stuzzicare e mettere alla berlina con toni garbati, la società modenese e per dare sfogo alla vena satirica del Peretti.
Il biennio 1846 – 48 vide la scomparsa di Francesco IV e la successione al trono di Francesco V, interessato soprattutto alle scienze positive e alle questioni militati. Non serbava una grande simpatia per il poeta che inopportunamente compose un elogio che pareva più ad una riedizione del Cinque maggio manzoniano che ad un classico elogio funebre. I detrattori ebbero modo di attaccare il poeta e Peretti rispose duramente «per le rime», trasformando la diatriba in vera e propria tenzone. Anche in campo sociale il Peretti ebbe modo di curare raccolte e pubblicare suoi versi, nell’ottica – afferma l’autore – di indirizzare al dedicatario duca ciò che è necessario per conseguire e mantenere la pacificazione interna ed esterna del ducato, promuovere quindi le scienze e le arti, la meritocrazia e la giustizia sociale. Fu il caso di Il pubblico omaggio dedicato al conte Giuseppe Forni nuovo ministro della Pubblica economia ed Istruzione, dotto nobiluomo benvisto dai letterati. Malgrado la crescente ostilità nei suoi confronti, Peretti cavalcando le istanze del progresso sociale, compose Le casse di risparmio e Le strade ferrate ma questo salto in avanti della sua poesia per il progresso dell’uomo gli attirò le ire dei conservatori e degli ambienti più retrivi della corte modenese. Legato all’impiego per lo stipendio che gli permetteva di mantenersi e mantenere dignitosamente i suoi sei fratelli, si sentiva sempre sull’orlo di abbandonarlo per un luogo meno martoriato dalla censura, come il Granducato di Toscana. L’autore si sofferma infatti sul primo viaggio in Toscana e l’incontro con Louisa Grace dopo aver «tastato» il terreno altrove: Torino, Lugano, Bologna e Roma. Partito per Firenze raggiunse l’amico Fornaciari a Lucca, poi a Pisa, Firenze e infine Pistoia per incontrarsi con la poetessa, traduttrice, saggista e pittrice Louisa Grace, famosa in città per il suo salotto culturale. Innamoratosi vanamente di lei, compose alcuni dei suoi più bei versi d’amore.
La frattura avvenne con la «Primavera dei popoli»: Antonio Peretti, libero dal controllo ducale, con la Rivoluzione del 1848 si era impegnato in una produzione poetica e giornalistica militante, ma il 27 luglio Radetzky batteva i piemontesi a Custoza. Il 3 agosto venne ripristinata la reggenza estense a Modena. Gli Austriaci erano entrati a Modena e se Francesco V non emanò nessuna condanna a morte contro i rivoltosi, Peretti il 29 luglio si trovava già a Bologna. Il 14 agosto il Sovrano Chirografo lo raggiunse revocandogli la carica di Poeta di Corte per il suo lavoro divenuto «ostile alla persona del Principe». Dopo varie traversie e incertezze, se tornare almeno agli impieghi accademici, malgrado una richiesta di reintegro da parte del Duca, avendo ormai gustato la libertà di scrivere ciò che voleva, non tornò indietro.
Compose la raccolta poetica Il Menestrello, Novelle e ballate dedicata a Louisa Grace, di stampo decisamente romantico. Poi due tributi ai martiri del Quarantotto e infine l’approdo al Piemonte della monarchia costituzionale, unico stato ad averla mantenuta dopo la fallimentare Prima guerra d’Indipendenza. Un primo tentativo avvenne grazie all’amico zaratino Pier Alessandro Paravia, docente di Eloquenza all’Università di Torino, aveva interceduto presso il ministro dell’Istruzione Carlo Cadorna ma la «fatal Novara» aveva fatto cadere il governo. Comunque, arrivò la proposta dal nuovo ministro Pier Dionigi Pinelli per un incarico di Ispettore delle scuole elementari e di metodo per la provincia di Pinerolo, in tema con il «Decennio di preparazione» che attirò in Piemonte molti intellettuali dissidenti ed esuli da tutta Italia. Il nuovo impiego lo trovò zelante nella missione educativa, di concerto con la sua produzione di prose popolari per «La Stella» di Pinerolo e le «Serate di famiglia» di Torino con racconti educativi, di fantasia o anche basato su fatti storici. Buon successo e frequentemente antologizzato nella seconda metà dell’Ottocento, fu il componimento Il buon prete. Poesie d’occasione Spaggiari le indica a Neive (Cuneo) per la presa di possesso della chiesa parrocchiale dell’Arciprete don Pietro Bonino e il carme in endecasillabi sciolti composto nel 1854 per l’ingresso alla parrocchia di Vestigné (Torino) da parte di don Giovanni Battista Curbis, cugino dell’amico di Ivrea Fausto Luigi Curbis, tipografo ed editore. In questi casi emerge la potenza pacificatrice della figura del parroco che non risponde per le rime al clero intransigente ma aiuta il popolo nella vita quotidiana ad avere saldi e virtuosi principi. Proprio in Piemonte diede vita a nuove produzioni di poesia patriottica, come ci spiega l’autore per celebrare il secondo anniversario dello Statuto albertino in cui emerge la dedica al re sabaudo, redentore delle sorti d’Italia con momenti d’ispirazione che vanno dall’Adelchi manzoniano alla poesia eroica in ottave. Trasferito con lo stesso incarico a Novara avrebbe dovuto provvedere al buon funzionamento scolastico in quella provincia con puntate a Varallo, trovandosi a gestire 380 scuole elementari. Pubblicò con benevolenza e sussidio del comune di Novara numerosi discorsi in materia di educazione dal piglio decisamente patriottico e filosabaudo; poi fu in missione come ispettore a Nizza, San Remo e Oneglia ed aumentò la produzione di poesia di circostanza.
Con chirografo del 7 novembre 1851 Francesco V lo escludeva dall’amnistia, decretando il bando perpetuo del Peretti dai suoi Stati:
Risultandoci da carteggi intercettati dall’emigrato Antonio Peretti, che egli non cessa di eccitare all’odio e disprezzo del Governo Nostro, spiegando sentimenti da incorreggibile rivoluzionario, ordiniamo di escluderlo dall’amnistia, a norma del Nostro Proclama dell’9 agosto 1848, di dichiararlo bandito in perpetuo dal Nostro S, di arrestarlo ove vi rimettesse piede, e di sottoporlo a processo, non solo pel titolo di bando violato, ma per punirlo inoltre come merita sull’appoggio dei documenti che si hanno in mano.
Modena, 7 novembre 1851
Francesco
Eliminati i ruoli stipendiali di Ispettore per la provincia di Novara, Peretti fu licenziato mentre era in convalescenza dopo una malattia al fegato, ma trovò lavoro grazie all’offerta giuntagli dal Municipio di Ivrea e il 12 ottobre 1853 prese servizio come Rettore del Collegio – Convitto e Preside del Liceo-Ginnasio, istituzione frequentata questa volta dalla classe borghese locale medio-alta. In quella città fondò con l’aiuto dell’avvocato Pietro Baratono le Scuole Tecniche di cui divenne Direttore. Portò gli studenti del Liceo dai trenta alunni che aveva trovato ai novanta in poco tempo. Qui ritrovò l’amico dei tempi modenesi, il matematico Ferdinando Paolo Ruffini. Trovò ancora il modenese Capitano di Stato Maggiore marchese Federico Carandini storico militare che insegnava alla locale Scuola Militare di Fanteria ed entrò in contatto con il dantista Giuseppe Campi, già ufficiale napoleonico ed esule dal Ducato di Modena dal 1848 e in quei tempi esule e Preside al Collegio di Chieri. A Ivrea entrò in contatto con il giovane studente Giuseppe Giacosa e con la sua famiglia. Con il padre, l’avvocato Guido Giacosa, letterato e cultore di componimenti. Su questa istanza Spaggiari afferma «che fu proprio grazie al suo magistero e al suo esempio che il piccolo Pin (nomignolo con cui Giuseppe Giacosa veniva chiamato sin da bambino) si avviò sulla strada delle lettere». L’autore ci fornisce, a supporto, la più tardiva testimonianza diretta del grande poeta canavesano e poi librettista dell’opera pucciniana. A Ivrea si ricostruì con i suoi allievi e colleghi una sorta di famigliola e dedicando ai Realis (la famiglia della madre di Giuseppe Giacosa) poesie d’occasione scritte insieme a Guido Giacosa. Oltre alla scuola e agli amici, Peretti frequentava il libraio – editore – tipografo Fausto Luigi Curbis che raccoglieva gli intellettuali della cittadina di provincia. Anche da questo luogo molte furono le collaborazioni a giornali. Componimenti poetici del periodo furono Il carme a Virginia Fumagalli e I Marchesi d’Ivrea e in prosa l’importante opera Le serate del villaggio che conobbe ben quattro edizioni. Nato dalla lettura e parziale traduzione dell’operetta francese dello storico e pedagogista riformato Adam Maeder, il Maître Pierre, Peretti lo ritenne valido dal punto di vista dell’utilità sociale, ma guardando la propria produzione passata, i racconti uditi e l’esperienza diretta – spiega Spaggiari – decise di realizzare un lavoro di più ampio respiro. Vi citò direttamente il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, di Giacomo Leopardi, opere del Muratori, tra le quali il De superstitionum semine in oscuri Italiae saeculis e altri ancora. Ancora un viaggio pieno di speranza per Pistoia al cospetto della poetessa amata Louisa Grace e poi, con un nulla di fatto, il mesto rientro a Ivrea, in seno al suo Liceo. I dolori fisici aumentavano ma consegnò la versione definitiva dei Marchesi d’Ivrea all’amico e collega Ferdinando Bosio ma la sera del 23 novembre le sue condizioni peggiorarono, accorsero nella sua camera dirigenti e colleghi e spirò chiamando Ferdinando (Bosio o Ruffini?). L’autore completa questo ricchissimo lavoro con l’elencazione della ricerca di edizioni delle opere postume e materiali inediti, la memoria, tra cui testi delle lapidi un tempo presenti al cimitero di Ivrea di Niccolò Tommaseo. Chiude l’imponente lavoro la postfazione del professor Giuseppe Giovanelli, Co-Direttore del Centro Diocesano di Studi Storici di Marola (Reggio Emilia), una ricca bibliografia e l’indice dei nomi.